Verso l’Età Moderna
Nel 1481 per far fronte alle condizioni di difficoltà in cui versavano le finanze del regno, aggravate dalla pressione esercitata dai Turchi nel Mediterraneo, con Regio Assenso di Ferrante d’Aragona si procedeva alla vendita per 3.000 ducati al «mag.co viro Galiocto Carrafa milite de Neapoli nostro fideli dilecto» dei «Castra seu Terras Roccae Poverellae [Rocca Falluca], Gimignani [Gimigliano], et Tiriolo». Alcuni mesi dopo aver acquistato Tiriolo il Caraffa entrò in aperto conflitto con l’Università di Catanzaro, perché voleva impedirgli l’antico diritto di legnare nei suoi feudi. Il contenzioso celava sicuramente un disegno più ambizioso, infatti, i tiriolesi guidati dal loro feudatario cercarono di impadronirsi anche del castello, che dopo la fine del dominio feudale rappresentava la sede del governo cittadino. Giorgio Vasari nella sua opera dedicata ai pittori ed agli scultori, ricorda anche «Marco calavrese», o Marco Cardisco, che secondo N.Morelli, uno storico dell’ottocento, sarebbe originario di Tiriolo dove nacque nel 1486. Intanto il Carafa, con Privilegio di re Federico il primo luglio 1499, comprò Terranova «cum titulo, et honore Comitatus» rilasciando alla Regia Corte in cambio del prezzo pattuito la «Baronia Tiriolo». La nuova demanialità durò poco, poichè, il 5 giugno 1501 un nuovo Real Privilegio di re Federico stabiliva che Tiriolo rientrava a far parte dei domini della famiglia Carafa. La pace di Grenada sancì l’appartenenza del Regno di Napoli al re di Spagna Ferdinando il Cattolico. Si era ormai verificato, anche grazie alle divisioni tra i grandi feudatari, il passaggio dal Regno al Viceregno. Nel 1505 Ferdinando il Cattolico concesse la contea di Terranova al Gran Capitano Consalvo di Cordova, per cui la Baronia di Tiriolo ritornò nuovamente in possesso di Galeotto Carafa. Nei primi anni del Seicento una nuova famiglia si affacciò nel panorama feudale calabrese: i Cigala-Doria, di origine genovese trapiantati a Messina. L’acquisto dello «stato» feudale di Tiriolo rappresentò un chiaro indizio della vocazione mercantile dei Cigala-Doria, che dai loro feudi posti al centro della Calabria intensificarono la funzione di collegamento tra Messina e Catanzaro per quanto riguarda il commercio della seta. Le trattative per la vendita della Baronia di Tiriolo, iniziate nel dicembre 1608, si conclusero con l’apposizione del Regio Assenso, in data 31 luglio 1610, con cui venne stabilita la vendita al prezzo di ottantamila ducati, al Conte Carlo Cigala la Terra di Tiriolo con i Casali di Settingiano e Miglierina, la Terra di Rocca Falluca, con i Casali di Arenoso e Caraffa, e la Terra di Gimigliano. Tiriolo nel corso del Seicento, grazie all’impulso impresso dai suoi feudatari/mercanti – i cui interessi spaziavano da quelli di natura puramente finanziaria al commercio della seta -, conobbe una progressiva espansione delle proprie capacità produttive. Accanto alle attività finanziarie e commerciali l’agricoltura continuò a svolgere un ruolo centrale, ad essa si dedicava gran parte della popolazione, comprese le donne, addette, oltre che ai tradizionali lavori nei campi, anche all’allevamento del baco da seta (nutricato) ed alla tessitura. Lungo le rive dei Fiumi Amato e Corace vennero costruiti nuovi mulini e all’interno del centro abitato diversi tappeti. A testimonianza della vitalità economica raggiunta i Cigala-Doria, al fine di incrementare il numero dei loro vassalli, assentirono alla fondazione di tre nuovi Casali: Cicala, Carlopoli e San Pietro. Pacchiane in Piazza Italia Tra la fine del Seicento e nel corso del Settecento Tiriolo subì continui danni dai terremoti: «Teriolo dei signori Principi Cicala ha patito poco negli edifici privati, ma il miglior pregio quale era il Castello fabbricato dal Principe con grande spesa, con terremoto del 27 marzo (1638) fu abbattuto» [DE URSO]. La notte del 29 marzo 1783 la Calabria meridionale fu sconvolta da un forte sisma che provocò centinaia di morti e danni incalcolabili. A Tiriolo i danni rimasero circoscritti alla parte alta del paese, con crolli di case intorno alla Chiesa Matrice, ma si ebbero lo stesso sette morti. Nel corso del Settecento la situazione di crisi dell’agricoltura andò aggravandosi, un altro duro colpo all’economia meridionale fu inferto dall’abolizione del privilegio della «seta franca», tutto questo senza che da parte della monarchia borbonica fossero presi provvedimenti atti a lenire le condizioni di estremo disagio delle popolazioni contadine. Provenienti dalla Francia cominciarono a diffondersi idee di libertà, uguaglianza, fratellanza, che però rimasero circoscritte a ristretti gruppi di circoli intellettuali, mentre il malcontento dei contadini più che contro il governo si indirizzava contro gli amministratori e la borghesia locale. Nel gennaio 1799 fu proclamata a Napoli la Repubblica Napoletana della quale entrò a fra parte, prima come Presidente della Commissione Finanze e, successivamente, come ministro dell’Interno, il matematico tiriolese Vincenzo De Filippis. Nel corso della breve, ma intensa, esistenza della Repubblica Napoletana i riformisti ed illuministi meridionali, soprattutto per l’appartenenza di molti di loro alla borghesia (il «ceto mezzano», secondo la definizione del Genovesi), accanto a provvedimenti importanti non riuscirono ad attuare per tempo una serie di riforme – la legge sui demani o quella sull’eversione della feudalità -, che avrebbero potuto attrarre alla Repubblica quei ceti popolari che, invece, seguirono gli stendardi della Santa Fede sotto la guida del Cardinale Fabrizio Ruffo. Vincenzo De Filippis fu giustiziato, assieme ad altri sette patrioti, il 28 novembre 1799. Nel 1806 quegli stessi contadini che pochi anni prima erano insorti in nome del Re contro la Repubblica, e che avevano visto puntualmente deluse le loro aspettative, almeno all’inizio non presero le armi contro i francesi. Ma le difficoltà insorte nel corso del decennio (1806-1815), caratterizzato da una profonda crisi agricola, dovuta sia all’arretratezza delle tecniche di lavorazione, sia a difficoltà economiche più generali e del commercio in particolare, spinsero, come estrema conseguenza, ad una recrudescenza del fenomeno del brigantaggio. Tra le cause non secondarie occorre considerare la reazione popolare ai soprusi dei soldati francesi, che si comportavano più che da liberatori come truppe di occupazione; l’attività svolta dagli agenti borbonici e da molti dei Capi Massa che avevano seguito il Ruffo; l’atavica ostilità dei contadini verso i proprietari di terre (i «galantuomini») che, puntual mente, si erano impadroniti delle cariche amministrative. Si hanno documentate testimonianze dell’attività svolta nel territorio tiriolese da nutrite bande di briganti, che tra il 1806 ed il 1811 commisero continue ruberie ed omicidi, raggiungendo punte di estremo sadismo. Tra questi vanno ricordati: Giuseppe Rotella detto «boja»; Bartolo Scozzafava, Giuseppe Puccio volpe; i fratelli Crocerio, ecc. Nel 1807 in piazza S.Elia vennero giustiziati sette briganti, numerosi altri vennero catturati, fino all’estinzione totale delle bande avvenuta nel gennaio 1811 ad opera delle truppe del generale Jannelli. Nel 1860, dopo la liberazione della Sicilia e della Calabria, il generale Garibaldi e le sue camicie rosse tra il 28 ed il 29 agosto furono accampati a Tiriolo. Si tramanda che prima di lasciare il paese il generale, dal balcone del palazzo Alemanni, tenne un appassionante discorso. Le camicie rosse, proseguendo per S.Pietro di Tiriolo raggiunsero Soveria Mannelli, dove il 30 agosto le truppe del generale Ghio, forti di diecimila uomini, si arresero a Garibaldi. Dopo l’Unità d’Italia la storia di Tiriolo s’intreccia e si accomuna a quella di molti altri paesi della Calabria e prosegue, senza particolare rilievo, fino ai giorni nostri.